Frampton mon amour

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 Il primo esame che sostenni all’università era quello di Storia dell’Architettura Moderna. Si partiva dal neoclassico per arrivare dritti al “contemporaneo”, che in realtà significava gli anni 80 del Novecento.

Il libro chiave in tutto ciò era IL Frampton, ossia Kenneth Frampton, Storia dell’architettura moderna, detto IL in senso amichevole, dato che ci dovevi passare in compagnia un po’ di pomeriggi della tua vita.

La questione era che io non avevo ancora capito la differenza tra mattoni e cemento armato, muri portanti, pilastri, facciate strutturali…

Eppure secondo loro avrei dovuto capire la grande importanza dei pilotis. A me quella di le Corbusier sembrava una bella villetta, forse un po’ troppo bianca (ma va bene, il bianco allarga). Non credo poi che i miei compagni ci capissero molto di più, quella che andava per la maggiore era la villa sulla cascata di Wright, ovviamente per le belle foto con l’acqua che passava sotto. La delusione ci è arrivata quando qualcuno degli studenti “più grandi” ci ha spiegato che era piena di muffa e funghi. Come uccidere un mito.

Insomma, un pout pourri di cose che si mescolavano nella mente di noi giovani matricole. Ovviamente poi partivano i gossip del tipo che il Bauhaus era una scuola di omosessuali e così via. E alla fine bene o male, tra un gossip e l’altro, una semplificazione dopo l’altra, tutti siamo riusciti a superare l’esame. 

Io portai come tema a scelta Walter Gropius. Lui sì che mi piaceva.

Prima di tutto, il poveretto era un po’ sfortunato, aveva fatto due figli ma tutti e due sono morti giovanissimi, e ha pure dovuto divorziare.Fortunatamente, però, ha avuto una vita professionale più che soddisfacente, avendo avuto un grande maestro come Behrens, ed arrivando a disegnare la sede del Bauhaus.

Ma l’edificio che più preferivo era la fabbrica Fagus, soprattutto perchè finalmente avevo capito il tema del corso. Non si trattava di ricordare i vari architetti qua e là e i nomi delle loro architetture, ma capire come l’architettura era cambiata, come ogni personalità aveva assimilato quello che le era stato insegnato e aveva cercato di  rielaborarlo secondo le sue capacità. Così quello che mi è rimasto del Frampton credo sia solo una cosa: la continuità tra la fabbrica AEG di Behrens e la fabbrica Fagus di Gropius. Guarda uno e guarda l’altro, tutto tornava. E l’ANGOLO era la parola chiave che legava il tutto.

E forse lo scopo del corso era proprio quello di carpire la continuità della storia dell’architettura.

Ma qualcosa mi dice che sia tornato il momento di rileggere IL Frampton a distanza di 10 anni. Forse stavolta ci capisco qualcosa di più. 

Silvia Polito

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